Il Parco archeologico-naturalistico dell’Acqua Claudia nasce con l’intento di tutelare, diffondere e valorizzare le realtà archeologiche, architettoniche e naturalistiche dell’area situata all’interno dell’omonimo stabilimento idrominerale. La presenza di notevoli rovine datate a partire dalla seconda metà del I secolo a.C. (domus) fino all’età moderna (mulino del XVII/XVIII secolo e casale patronale con torretta dei primi del ‘900) e di una ricca vegetazione soprattutto spontanea sorta in molti settori del Parco e lungo il fiume Arrone ne fa il crogiolo ideale per un connubio storico/naturalistico di alto livello.
Il monumento-guida è senz’altro il complesso romano. Sorto sul fianco di una collina a partire dalla seconda metà del I secolo a.C., presenta testimonianze di un passato più antico come il ritrovamento di fondazioni pertinenti ad una precedente struttura distrutta dalla costruzione tardo-repubblicana (si ipotizza una piccola residenza o una struttura templare dedicata ad una divinità dell’acqua del III secolo a.C.) e da alcuni ritrovamenti pertinenti alla fase etrusca (frammenti di bucchero) ed alcune testimonianze addirittura di epoca neolitica (frammenti di punte di freccia, di lancia e di raschiatoi in ossidiana). La presenza di una antica sorgente di acqua fredda e minerale naturale sfruttata prima dell’arrivo dei Romani ha favorito una frequentazione del luogo fin dalle epoche più remote, anche grazie alla vicinanza del fiume Arrone. L’area di estensione dell’antica residenza è di circa tre ettari, comprendenti il complesso residenziale e produttivo, una cisterna a pianta circolare a doppio anello concentrico, una vasca pertinente ad una fontana, un diverticolo stradale basolato e una grotta lunga circa settanta metri creata appositamente in epoca romana per conservare le derrate alimentari.
Di grande interesse è un antico mulino completamente inesplorato sorto lungo la sponda destra del fiume Arrone immerso in un settore del boschetto di bambù che cresce rigoglioso lungo il lato del fiume e dell’attigua ferrovia. Nelle vicinanze sono visibili i vecchi impianti industriali dei primi del 900 (oggi in parte utilizzati come magazzini) e una monumentale fontana detta ‘dei leoni’ per via delle protomi leonine dalla cui bocca sgorga acqua. La fontana, anch’essa immersa nell’affascinante cornice del boschetto di bambù e di piante di quercia, venne probabilmente costruita nei primi decenni del ‘900 a cornice del meraviglioso parco-giardino che uno dei primi proprietari, G. Forastieri, si fece costruire. Contestualmente ai giardini, nella stessa epoca, venne costruita una residenza patronale a due piani con torretta, oggi in stato di abbandono, attigua all’antica grotta romana. Quest’ultima è uno dei ‘pezzi pregiati’ del parco, la quale, seppur in via di risistemazione per l’apertura al pubblico, rappresenta uno dei pochi casi in cui ci è giunta una vera e propria ‘cantina’ romana dove venivano conservate al fresco le derrate alimentari.
Completano la cornice monumentale un edificio probabilmente tardo-ottocentesco (presente all’interno della sede dell’Associazione Archeologica ‘Antica Clodia’) in stato di abbandono. Il tutto circondato da una rigogliosa vegetazione che in modo quasi del tutto naturale riprende l’antico concetto romano del ‘lucus’ (bosco sacro) caro a ninfe e satiri.
Il complesso archeologico dell’Acqua Claudia rappresenta uno dei rari esempi di architettura curvilinea romana di carattere privato (famosa è anche l’esedra del ninfeo degli Horti Luculliani) ed accostabile cronologicamente alla grande esedra del tempio della Fortuna Primigenia di Palestrina. La struttura è impostata su tre distinti livelli, il primo scenografico, gli altri due funzionali all’abitazione e alla produzione. Il piano terra era occupato da una grande esedra scandita da nicchie fenestrate con semicolonne alle cui estremità erano posizionati due ninfei tra loro presumibilmente collegati da un canale interrotto nella parte centrale da un ponticello andato distrutto. La tecnica edilizia utilizzata è quella che gli archeologi convenzionalmente chiamano ‘opus quasi reticulatum’ grazie alla quale è stato possibile collocare cronologicamente il complesso nel decennio compreso tra il 40 e il 30 a.C. con una datazione molto simile alla villa di Livia a Prima Porta, alla villa dei Volusii nel territorio capenate e alla villa di Orazio a Licenza. Al centro dell’esedra si apre l’entrata monumentale con il grandioso ninfeo con volta a botte, fiancheggiato ai lati da due ingressi (quella di destra schermata da una scala pertinente ad un casale del 900 poi abbattuto). L’area del ninfeo, se si escludono alcune porzioni, presenta una stratigrafia di ricolmo di quasi due metri, che oblitera interamente l’ambiente un tempo accessibile attraverso la porta di sinistra (dove si presume possa trovarsi la grotta dell’antica sorgente) e parte del ninfeo. La porta di destra, attraverso la scala posticcia, conduce al mitreo completamente visitabile.
Attraverso un piano intermedio, quasi interamente interrato, si raggiunge il pianoro sovrastante che non sfrutta il fianco della collina ma la sua superficie. Qui erano dislocati gli ambienti residenziali veri e propri sfortunatamente ancora interamente da indagare e che occupavano l’intera parte destra del pianoro. Al centro era probabilmente situato un giardino-peristilio o l’impianto termale (nei ‘balnea’ repubblicani si riduceva a caldarium e frigidarium) la cui natatio (piscina d’acqua fredda) era situata all’interno di un peristilio ancora quasi del tutto interrato e confinante con l’impluvium (spazio aperto per la raccolta dell’acqua piovana), che rappresentava il margine più esterno e situato nei pressi della porta principale d’ingresso, individuata grazie alla scoperta in loco di una soglia divisa in tre blocchi in pietra basaltica. Un disimpegno a cielo aperto (si ipotizza un parcheggio per carri e calessi) fungeva da elemento divisorio tra la pars rustica (residenza della servitù) e la pars fructuaria che comprendeva stalle, magazzini, luoghi di lavorazione delle materie prime. Staccata dall’area produttiva la pars dominica (residenza del dominus e della sua famiglia). Sappiamo infatti che questi grandi complessi sperduti in aperta campagna avevano l’assoluta necessità di rendersi completamente autonomi per la produzione di derrate alimentari e limitarsi all’acquisizione di prodotti disponibili solo nella capitale o nei pressi di laghi o del mare (l’uso del pesce era facilmente accessibile grazie alla vicinanza del Sabatinus lacus).
Nonostante poco più del 30% del complesso sia attualmente visibile restano da scavare il canale di collegamento dei due ninfei dell’esedra, il piazzale antistante che presumibilmente lastricava l’ingresso monumentale, l’intera pars dominica, buona parte dell’impianto termale e buona parte della pars fructuaria (eccetto una delle stalle liberata negli anni ’30 dagli scavi di Roberto Vighi).
Sul lato destro del grande ninfeo monumentale, raggiungibile solo attraverso una scala costruita agli inizi del ‘900, oltrepassato un ingresso a volta si accede all’interno di un ambiente ipogeo composto da un atrio, due bracci frontali ed un braccio laterale destro. Si tratta di un tempio dedicato a Mitra, divinità indo-iranica, il cui culto venne portato a Roma dalle truppe di Pompeo di ritorno dall’oriente in seguito dello sbarco delle sue truppe a Brindisi avvenuto nel 62 a.C. Il culto di Mitra si diffuse a Roma soprattutto a partire dal I secolo d.C. divenendo nel giro di due secoli il culto più diffuso. La tradizione vuole che la cerimonia era caratterizzata da un’immersione nella cosiddetta fossa sanguinis, una fossa nel terreno piena del sangue del toro che spesso viene rappresentato sgozzato dal dio riconoscibile con il tipico copricapo frigio. Trattandosi di una costruzione arcaica (in questo caso il luogo di culto è interamente scavato nella roccia per ricreare il luogo di nascita del dio) la fossa sanguinis non venne ricreata (anche per l’esiguità dello spazio) e sostituita da un pozzo, un lungo canale in collegamento con la superficie che aveva probabilmente il duplice scopo di far discendere il sangue degli animali per la cerimonia (probabilmente di piccolo taglio) ed avere un diretto contatto con il cielo, essendo il legame del dio molto forte con le costellazioni celesti.
Intorno all’ambiente di culto banchine scavate nella roccia, una tavola d’offerta, una nicchia per contenere l’anfora per l’acqua e una piccola nicchia destinata ad accogliere il simulacro della divinità.
A pochi metri di distanza dal ninfeo che chiudeva il lato destro dell’esedra, venne riportato alla luce e più volte ripulito un tratto di circa ottanta metri del diverticolo stradale che collegava il complesso romano all’antica via consolare Clodia. Nei pressi della vicina località I Due Pini, il diverticolo si staccava dalla via Clodia e si dirigeva verso l’Acqua Claudia passando parallelamente alla grande esedra per poi compiere una curva di circa novanta gradi e dirigersi, attraversando l’area tra la grande cisterna circolare e la residenza del dominus, fino all’area retrostante la pars fructuaria. Il diverticolo, largo poco più di due metri, presenta in alcuni punti le crepidini laterali che delimitavano il basolato.
Situata nel punto più alto della collina, per permettere alle tubazioni di assumere una adeguata pendenza per il regolare scorrimento dell’acqua, la cisterna circolare presenta un doppio anello concentrico. Il primo anello (non visibile a causa della parziale trasformazione negli anni 40/50 della cisterna in una piscina) è ancora del tutto integro ed anzi, agli inizi degli anni ’30 era ancora visibile la parziale copertura con una volta a botte, in seguito crollata o distrutta. Il secondo anello, parzialmente danneggiato, è quasi del tutto interrato costruito in opera cementizia idraulica e non presenta cortina di rivestimento. Durante gli scavi degli anni ’30 vennero riportate alla luce alcune fistule per il trasporto dell’acqua negli ambienti del pianoro.
Nei pressi della residenza patronale, sul fianco settentrionale dello sperone pozzolanico, venne scavata in epoca romana una grotta lunga circa settanta metri ai cui lati si aprono una serie di nicchie perfettamente scavate profonde circa due metri con un banco anch’esso scavato nella roccia sulla cui superficie venivano sistemate le derrate alimentari. A due terzi della grotta sul soffitto si apre un foro (esternamente protetto con una piccola costruzione moderna in blocchetti di tufo) che serviva come presa d’aria. Qui si conservavano anfore di olio e vino, dolii pieni di grano, sacchi di farina e altre derrate alimentari. Nei pressi dell’ingresso, probabilmente in epoca successiva, è stato scavato un secondo braccio profondo circa 15 metri con le medesime funzioni. L’ingresso della grotta venne monumentalizzato negli anni ’20 con la costruzione di un muro in laterizi, decorato con marcapiano e un piccolo rosone centrale.
Poco distante dalla grotta-cantina, venne costruita nei primi anni del ‘900 dall’allora proprietario dello stabilimento idrominerale una residenza caratterizzata da una torre merlata che ospita la scala per il piano superiore. L’edificio è in stato di abbandono ed è visibile solo esternamente. Intorno alla residenza sono ancora visibili elementi d’arredo da giardino (tavolo e panchine in pietra) ed alberi ornamentali (palmette, agrumi, magnolie e un viale di bosso che conduceva alla scala monumentale della fontana dei leoni).
Lungo le sponde del fiume Arrone sono visibili i resti completamente inediti di un mulino probabilmente edificato tra il XVII e il XVIII secolo (ma non si esclude possa avere fondazioni più antiche). Il mulino sfruttava la forza motrice dell’acqua che azionava il meccanismo a moto orizzontale della macina per la produzione della farina. Si notano chiaramente due fasi edilizie e l’interno, ormai privo della protezione del tetto, risulta visibile ad una quota molto più bassa del terreno circostante (circa tre metri) segno dunque che l’edificio venne costruito proprio a ridosso del fiume in un’epoca in cui la portata d’acqua era molto maggiore rispetto a quella odierna.
In prossimità del mulino e completamente circondato da una ricca vegetazione, venne ricavata negli anni 20 del secolo scorso una piccola piazza raggiungibile mediante una scala monumentale di fronte alla quale venne posta una fontana in laterizio con in alto una lapide di travertino riportante l’iscrizione ACQUA CLAUDIA e al centro due protomi leonine da cui sgorga l’acqua che si immette all’interno di una vasca in muratura. L’intero piazzale è acciottolato con scaglie di selce e circondato, così come la scala monumentale, da un muro in laterizio.
Lungo il fianco del fiume Arrone, circondando completamente la fontana dei leoni e il mulino, si nota un bellissimo boschetto di bambù con canne che arrivano ad un’altezza anche di dieci metri. Il bambù fa parte integrante del tipo di vegetazione che ha spontaneamente proliferato grazie all’abbondante presenza d’acqua nel sottosuolo.
Il lucus (‘bosco sacro’) era per i romani il luogo di dimora delle divinità, soprattutto ninfe e fauni. L’origine del lucus risale alla notte dei tempi, quando gli uomini, per ingraziarsi gli dei e sperare nella loro benevolenza, offrivano loro cibi e libagioni, le stesse che si erano procurati cacciando o raccogliendo frutta dalle piante che lo componevano. Il bosco quindi diventa un elemento sacro e certamente presente nell’area destinata a giardino di proprietà del dominus. Il luogo dove sorgeva l’antico lucus dell’Acqua Claudia non è stato individuato con certezza ma doveva essere non troppo distante dalla residenza del padrone di casa e facilmente accessibile, composto da piante, alberi e cespugli di vario tipo simili a quelli che si possono attualmente ammirare nel parco (allori, ulivi, fichi selvatici, acacie, tigli e querce).
Contrariamente a quanto si è sempre creduto, l’origine del nome ‘Claudia’ non deriva dalla presenza di un antico impianto romano dell’epoca dell’imperatore Claudio (che ha regnato dal 41 a 54 d.C., circa ottant’anni dopo la costruzione del complesso), ma dall’antica via consolare Clodia, costruita tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C. che ne permetteva il raggiungimento mediante un diverticolo stradale. Ma chi ha costruito questo meraviglioso complesso? In assenza di scavi sistematici, carteggi e testimonianze di autori antichi, ci si deve basare al momento su congetture e le poche prove archeologiche finora ottenute. Nella seconda metà del XIX secolo venne rinvenuto un frammento di una lastra marmorea (forse pertinente ad un architrave) riportante la seguente iscrizione molto frammentaria: CORNELIO – FA.
La forma delle lettere, fortemente spaziate, ha permesso di datare l’iscrizione all’inizio dell’età augustea, intorno al 27/25 a.C. Il ritrovamento dell’iscrizione permette dunque di attribuire alla gens cornelia la proprietà del complesso architettonico. Uno studio degli esponenti della antica e prestigiosa gens romana contemporanei alla costruzione di ‘Acqua Claudia’ ha permesso di identificare il possibile costruttore del complesso con Lucio Cornelio Balbo il Maggiore. Ma perché propendere per questa attribuzione? Lucius Cornelius Balbus detto Maior nacque a Gades (l’odierna Cadice) intorno al 100 a.C. Conobbe Giulio Cesare durante la sua missione spagnola, per poi seguirlo di ritorno a Roma. Strinse amicizia con Pompeo dandogli modo di ottenere la cittadinanza romana come premio per la sua collaborazione nella guerra combattuta contro Sertorio che pose fine al conflitto. Fu un personaggio di grande rilevanza politica ricoprendo il ruolo di praefectus fabrum (‘ufficiale di genio’) al fianco di Giulio Cesare prima e Ottaviano dopo, divenendo console nel 40 a.C. come primus exterorum. Non è un caso che venne a lui è dedicato l'ottavo libro del De bello Gallico ed è considerato l'autore del Bellum Hispaniense.
Siamo dunque di fronte ad un personaggio di spicco del patriziato romano amico e contemporaneo di Pompeo, grande generale e politico romano, noto anche per la costruzione del primo teatro in muratura a Roma. Iniziato nel 61 e completato nel 55 a.C., la sua costruzione rappresentava per l’epoca un evento senza precedenti. La legge romana infatti impediva la costruzione di un theatrum marmoreum (teatro fisso, cioè non amovibile), allo scopo di conservare il carattere religioso come imponeva la tradizione greca. Aggirando la norma con uno stratagemma, Pompeo venne considerato a tutti gli effetti il precursore di una nuova forma architettonica.
Cornelio Balbo visse in prima persona questa esperienza, ed anzi, il ritrovamento di un teatro a lui attribuito a Cadice funse da modello per quello pompeiano, traendo nuova ispirazione dalla ‘curvilinearità’ architettonica della struttura, per la sua esedra del complesso dell’Acqua Claudia. Quest’ultima infatti è formata da una serie di nicchie semicircolari scandite da semicolonne in muratura un tempo sormontate da un secondo piano decorato da colonne in travertino. La somiglianza con la cavea di un teatro è impressionante soprattutto se si pensa che l’emiciclo ha una corda di 87 metri, facendo assumere al complesso una grandiosità scenografica finora mai assunta da una struttura privata suburbana.
Il completamento della costruzione avvenne probabilmente intorno al 30 a.C. periodo in cui Lucio Cornelio Balbo donando grandi ricchezze ai cittadini romani, fece perdere le sue tracce, probabilmente ritirandosi a vita privata.
L’amore per una forma architettonica cosi innovativa per Roma spinse probabilmente suo nipote, Lucio Cornelio Balbo detto Minor, a realizzare nei pressi del teatro di Pompeo un altro teatro, il terzo situato in Campo Marzio, ultimato nel 13 a.C., oggi corrispondente all’area archeologica della Cripta Balbi.
L’attribuzione del complesso dell’Acqua Claudia a Lucio Cornelio Balbo Maggiore permette probabilmente di svelare un altro mistero strettamente legato al ritrovamento del Tesoro di Vicarello, avvenuto nel 1852 presso le Aquae Apollinares Novae situate sulle sponde del Lago di Bracciano presso l’omonimo borgo. Tra gli importanti oggetti in metallo rinvenuti all’interno della fenditura della roccia da cui sgorgava l’acqua calda, vennero alla luce quattro bicchieri d’argento, riproducesti in piccola scala un miliario romano. Datati al periodo augusteo, i bicchieri riportano impresso sulla loro superficie il cosiddetto itinerarium gaditanum, il percorso terrestre da Gades a Roma. Molti dubbi sono legati alla loro presenza all’interno della stipe votiva. I bicchieri infatti non hanno alcun rapporto con Apollo (divinità a cui l’area era dedicata) e inoltre Vicarello non è una delle 104 tappe dell’itinerarium visto che giunge a Roma per la via Flaminia.
Escludendo tutte le ipotesi finora avanzate dagli studiosi negli anni scorsi, ritengo che la presenza dei bicchieri di Vicarello sia strettamente connessa con l’origine del proprietario dell’Acqua Claudia, Lucio Cornelio Balbo Maggiore e di suo nipote omonimo, entrambi nati a Gades in Spagna. Questo giustificherebbe appieno la presenza degli oggetti nella stipe di Vicarello e confermerebbe la presenza nel territorio sabatino di due importanti personaggi della gens Cornelia.